Se escludiamo percorrere nei due sensi l'autostrada
Bologna Modena un discreto numero di volte a settimana, la cosa più avventurosa
che ho fatto in vita mia è stato fare qualche viaggio al risparmio quando avevo
una ventina d'anni. Non ho mai scalato le montagne, nè attraversato deserti, nè
mi sono gettato da ponti o areoplani.
Dovrebbe essere incomprensibile
quindi, ai miei occhi, una figura come quella di Chris McCandless, che dopo la
laurea ha mollato la famiglia, ha abbandonato l'auto, ha bruciato i soldi che
aveva in tasca e si è lanciato in una serie di "avventure" che dovevano alla
fine costargli la vita. Eppure credo che Chris, protagonista di "Into the Wild"
di Jon Krakauer, non fosse uno squilibrato, nè uno stupido
(nonostante ancora oggi, nelle recensioni su Amazon, molti lo bollano
come uno sprovveduto), ma un ragazzo brillante che ha seguito quel
richiamo che ha ucciso milioni di giovani idealisti, in guerra o in
qualche altro affare pericoloso.
Krakauer scrive molto bene, e se si fosse trattenuto dall'insistere su alcune
parti accessorie un po' dispersive (evidentemente era restio a abbandonare il
risultato di ricerche che sono costate molta fatica) il libro sarebbe ancora
migliore. Si capisce che si identifica molto nel personaggio e in un capitolo
ricicla la sua spedizione solitaria sul Devil's Thumb, già presente in un altro
suo libro che ho già commentato.
Alcune parti del libro sono molto ben
riuscite. Sembra quasi di vedere
Chris, che in un villaggio dell'Alaska
inbuca l'ultima cartolina che finisce così:
"Now I walk into the wild."
e chiede un passaggio per una zona deserta in cui non incontrerà nessuno e
sopravviverà per 113 giorni mangiando quello che riesce a catturare, leggendo
Tolstoi e scattando fotografie.
Dal suo diario Krakauer ricostruisce come, vivendo un'esperienza al limite, basta un piccolo
errore per non avere più scampo.
E come dice Krakauer, per
misurare quanto sono vuote le parole degli apologeti delle imprese pericolose,
basta guardare una volta i genitori degli eroi morti.